Indipendenti
Letteratura

Indipendenti

Le pubblicazioni tramite autoedizione: un ammasso di carta straccia che si manda al macero da sé, oppure uno dei pochi sbocchi per gli esordienti italiani? Entrambe le opzioni? Uno sguardo sulla realtà.

Accende gli entusiasmi della piccola platea sprezzante di best seller e operazioni realizzate troppo in stile libero.” (Repubblica, 21 febbraio 1998, Roma, p. IX)

L’autoedizione, fenomeno controverso che vede la pubblicazione in proprio dell’autore di una sua opera, nel 1998 era stata definita con queste parole da Aldo Mastropasqua. In quell’occasione erano riferite al caso di Corrado Govoni, che nel 1903 pubblicò a sue spese il proprio libro di poesie d’esordio, “Le Fiale”, investendo l’intera eredità lasciatagli dalla nonna. Da allora i tempi si sono evoluti, l’avvento delle nuove tecnologie ha espanso il mercato dei self-publisher, grazie agli e-book, ai modici costi di stampa per la realizzazione di copie cartacee e all’apertura delle vendite online.
Il fenomeno dei libri autopubblicati è in crescente aumento, le opere si impilano l’una sull’altra nei vari canali di vendita e formano pile e pile di bit, spesso ignorate perché su di loro vige una sorta di tabù: “se l’autore ha pubblicato il libro da solo, vuol dire che non era abbastanza valido perché fosse pubblicato da una vera casa editrice”. Inutile girarci attorno: per la maggior parte dei testi che si immettono sul mercato in questo modo, è vero. Sono in molti gli autori che si definiscono tali con scarsa umiltà e pubblicano senza remora alcuna il proprio scritto.

Poi, come per tutto, esistono le eccezioni. C’è chi sceglie di autoprodursi, come Amanda Hocking che ha fatto di Trylle Trilogy un best seller, e tanti altri che hanno riscosso meno successo, ma che per qualità dei propri lavori hanno poco da invidiare ai libri editi secondo i dettami dell’editoria convenzionale. Un buon esempio italiano, di nicchia data la poca fama del suo autore, di cui il nome rimane tutt’ora un mistero, visto che si firma sotto pseudonimo, è il ciclo di Lexington: un romanzo di avventura post-apocalittica suddiviso in più volumi, pubblicato tramite Amazon KDP.
Ma quindi perché scegliere, in questo caso, l’autoedizione, anziché l’appoggio di un editore tradizionale? “Prima di tutto per avere un editore serve che un editore legga e apprezzi il tuo lavoro. E quando ho scritto il primo libro di Lexington non credevo possibile che potesse succedere. Anche ora lo ritengo molto improbabile.” risponde JPK Dike in prima persona, autore di Lexington: “I tempi di attesa per ricevere una risposta da una casa editrice sono stati, però, l’elemento principale che mi ha fatto propendere per l’autoproduzione. Voglio scrivere e voglio pubblicare: stare fermo e attendere anche sei mesi una risposta che potrebbe non giungere mai non mi ha mai preso come idea, o esperienza da vivere. Mi innervosisco anche quando aspetto il treno sulla pensolina e quello è in ritardo di soli cinque minuti, figuriamoci attendere sei mesi. Il mondo va avanti, e la vita non aspetta. In sei mesi si scrive un libro e se ne comincia l’editing, il resto credo sia tempo perso.

La velocità di produzione, infatti, è uno dei fattori che ha incentivato l’autoedizione; le piattaforme apposite permettono all’autore di vedere messa in vendita la propria opera nel giro di qualche giorno, in certi casi addirittura poche ore, una volta che questa (si spera) è stata terminata e ricontrollata con cura. D’altra parte, questa rapidità può essere lesiva nei confronti di quelle opere pubblicate con smania e fretta, per cui escono sul mercato in condizioni inaccettabili, così come può svantaggiare anche il settore della piccola editoria classica: da una parte “Le grandi case editrici vedono nell’autopubblicazione uno strumento a loro favore: meno manoscritti a finire sui loro tavoli, e si possono buttare su quei libri che hanno già dimostrato di vendere. Spesa e rischio minimo.” come dall’opinione dell’intervistato JPK Dike; “ma per una casa editrice non così grande e potente, che vive di esordienti, un autore indipendente è un guadagno mancato e difficilmente recuperabile. Per un autore che riesce a scrivere, editare, impaginare e pubblicarsi (e magari facendolo con buone copertine e buone vendite), una casa editrice medio-piccola risulta per forza di cose un passo indietro nella vita editoriale. Inoltre nel tempo che un editore di questo calibro rilascia un libro, un indipendente può farne uscire anche due o tre.” conclude l’autore, che da selfpublisher ha avuto modo di toccare i fatti con mano.

Infine un altro dilemma, che nasce dalla così crescente ondata di scritti autopubblicati, è se davvero l’autore riesce a guadagnarci qualcosa, vista la grande concorrenza di mercato. Di certo, questo resta il punto forte dell’editoria convenzionale: l’autore ha alle spalle un editore, un imprenditore che è disposto a credere e a investire sulla sua opera, la pubblica e ne conseguono presentazioni, pubblicità. Ovvio che, invece, con l’autoedizione l’autore diventa l’imprenditore di se stesso, e sta alla sua bravura e al suo studio del marketing il successo di vendita. Impossibile? “Considerando da dove sono partito, e che utilizzavo uno pseudonimo, ho avuto un riscontro di pubblico molto buono. Ho venduto bene e ricevuto commenti e buoni ratings.” risponde JPK Dike: “Mi viene da chiedermi cosa succederebbe se riuscissi a raggiungere un pubblico maggiore. Se sono piaciuto a cento sconosciuti, è molto probabile che là fuori ne esistano altrettanti, o più, che non aspettano altro che lavori come i miei. Tutto sta nel raggiungerli.

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