Unbelievable
Belle Arti

Unbelievable

Damien Hirst resuscita secoli di miti e leggende, portando a galla il tesoro di una nave naufragata duemila anni fa… in sogno.

Questa mostra mi ha colpito come non capitava da anni: sto parlando di Treasures from the Wreck of the Unbelievable, opera di Damien Hirst, artista che, il 3 Dicembre 2017, ha terminato di popolare con le sue meravigliose creature le stanze di Palazzo Grassi e del Museo Punta della Dogana (grazie alla Fondazione Pinault), a Venezia. La mole di questa collezione era tanto grande da occupare per intero due musei diversi, entrambi affacciati sui canali della città così che si potessero trasportare più agilmente le pesantissime opere del creativo inglese. 

L’artista ha messo in scena nientemeno che la più grande scoperta archeologica dell’ultimo decennio: il tesoro perduto della nave Apistos (“incredibile” in greco), proprietà del liberto Cif Amotan II.  Quest’ultimo, dopo aver accumulato rarità provenienti da tutto il mondo, decise di trasferirle in un tempio da lui costruito per ospitarle; non aveva idea, però, che la sua intera ricchezza sarebbe sprofondata nell’Oceano Indiano per rimanere celata al mondo fino ai nostri giorni. Damien Hirst è riuscito a ricostruire tutto, letteralmente tutto: la provenienza e la funzione degli oggetti ritrovati, la loro datazione, persino la loro disposizione all’interno della nave, grazie alla realizzazione di un modello digitale tridimensionale. Il recupero dei tesori è stato documentato per intero, così che diversi reperti sono accompagnati dalle meravigliose foto realizzate sott’acqua che li ritraggono con i sommozzatori. L’intero racconto del ritrovamento, sintetizzato nel cortometraggio che apre la visita, è avvincente. Avvincente e del tutto inventato, falso: la vicenda di Cif Amotan II (nome che, anagrammato, risulta I am fiction) è solo un pretesto per realizzare, ai giorni nostri, colossi di 18 metri, enormi gruppi scultorei di puro lapislazzulo del peso di tonnellate, scudi d’oro e bestie di pietre preziose. Perché Hirst fa questo: immagina tutta la vicenda dall’inizio alla fine e utilizza marmi, rubini, metalli preziosi per dare luce a tutte quelle meraviglie dell’antichità che non abbiamo mai visto, riportando l’arte a non avere solo valore concettuale, ma anche materiale, economico.

Questa è una delle cose che maggiormente mi ha colpito della mostra: avevo appena visitato la Biennale dell’arte, trovando opere ricche di spunti interessanti e padiglioni dal messaggio molto forte, che ancora adesso trovo profondi e originali; come non rimanere a bocca aperta, però, quando il contenuto di un’opera è descritto con oro e argento invece che sacchi della spazzatura? Era una gioia per gli occhi avere davanti quei materiali, osservare i lavori di cesello e intarsio, l’eleganza del marmo abbinata all’ironia di un artista contemporaneo. In fondo, credo che fino a questa esibizione (e spero sia una sorta di spartiacque), l’arte odierna avesse dimenticato un tassello fondamentale: la capacità di meravigliare. Non c’è dubbio che l’obiettivo dell’opera d’arte, rispetto a millenni di anni fa, sia mutato parecchio, però mi è venuto spontaneo pensare come essa, a quei tempi, avesse un profondo impatto sulla popolazione proprio perché veicolo di grandiosità, perché il lusso che incarnava non era immagine quotidiana. È banale, ma entrare in un museo e trovarmi davanti colossi di bronzo e busti d’oro con occhi di rubini ha avuto un impatto molto forte sulla mia sensibilità, molto più forte di quello che avrebbe avuto la stessa collezione realizzata con cartone e plastica. 

L’opera di Damien Hirst  lascia senza fiato: come un cantastorie accompagna i visitatori in un mondo onirico partorito dalla sua sconfinata immaginazione, rendendoli protagonisti di un’esperienza che invita allo stesso tempo a riflettere e a giocare, ma soprattutto a lasciarsi ingannare. Come scrive Laura Cumming nel suo articolo per The Guardian: «it gradually becomes apparent that this is not just a spectacular combination of storytelling, visual invention and slow-building humour, but a meditation on belief and truth». E non credo che ci siano parole migliori per descrivere l’operazione culturale rappresentata da questa mostra.

Nella collezione si riflette l’esperienza di una vita passata a osservare l’arte. I riferimenti sono infiniti e attingono dal passato come dalla contemporaneità: sculture di Topolino convivono con “antichi” reperti sudamericani, faraoni dalle fattezze di Pharrell Williams trovano posto accanto a sculture della dea Kali, e sono questi ironici strappi alla regola che riportano alla realtà, ricordando allo spettatore di essere davanti a un’intricatissima menzogna. La cura che l’artista mette in ogni dettaglio è entusiasmante, soprattutto nella descrizione degli oggetti e nella stesura della guida alla mostra, che proprio come in un museo di storia naturale fornisce tutte le informazioni archeologiche, storiche e scientifiche necessarie alla comprensione di ciò che si sta osservando, ma lo fa da un’altra prospettiva (ovviamente falsa), reinterpretando con fantasia i miti del passato. Così la leggenda dei ciclopi nasce dal ritrovamento, da parte delle popolazioni antiche, del teschio di un mammut: come non scambiare l’enorme cavità nasale dell’animale con l’osso sfenoide del cranio di un gigante con un occhio solo? Ma Hirst va oltre, realizzando l’impossibile laddove l’immaginazione umana ha sorpassato la realtà: lo fa, per esempio, portando alla luce lo scudo dorato di Achille (intarsiato a regola seguendo le istruzioni dettate da Omero) o il teschio argenteo di un unicorno. Per completezza, poi, le opere sono mostrate in tre versioni: quella imbrattata nei secoli dal corallo, quella restaurata e la versione museale senza difetti. 

Dopo dieci anni di lavoro è così che Damien Hirst ritorna in scena, con un evento che è stato un’accozzaglia di messaggi, un’opera monumentale in cui ciascuno può leggere provocazioni, ironia, semplicemente bellezza o svago. A mio parere la sua è stata un’operazione culturale davvero innovativa, un ibrido tra un gioco intellettuale e uno show esageratamente grandioso (ma in positivo). Il pregio maggiore è senz’altro l’impatto scenografico, la capacità di destare quella meraviglia che trasuda ogni opera. Non pensavo che nel ventunesimo secolo mi sarei trovato intimorito davanti a una scultura colossale della dea Kali che combatte contro una terribile Idra. Hirst mi ha fatto provare questa emozione, e ha aperto nuovi scenari nell’arte contemporanea. 

Utiliziamo cookie tecnici e di terze parti per fornire i nostri servizi e gestire le statstiche. Utilizzando il sito (quindi navigando o scrollando), accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Utilizziamo cookie tecnici per fornire i nostri servizi. Tali cookie sono essenziali per la corretta visualizzazione del sito e non possono essere disabilitati. Maggiori informazioni sulla documentazione ufficiale.

Utilizziamo cookie di terze parti per gestire i commenti, appoggiandoci alla piattaforma Disqus. Maggiori informazioni nella documentazione ufficiale.

Utilizziamo cookie di terze parti e di profilazione per gestire le statistiche, appoggiandoci alla piattaforma Google Analytics. Maggiori informazioni nella documentazione ufficiale.

L'Utente puo' disabilitare i cookie modificando le impostazioni del browser, o utilizzando strumenti di gestione online come YourOnlineChioices. Si ricorda tuttavia che disabilitare del tutto o in parte i cookie potrebbe avere un impatto negativo sulla visualizzazione e sulla fruibilita' del sito.

Chiudi