Subhuman Inhuman Superhuman
Design

Subhuman Inhuman Superhuman

“I would lay a black glittering turd on the white landscape of conformity”
Rick Owens

Varcando il portale e i fasci di luce ci si ritrova catapultati in un altro mondo, un universo fatto di rabbia, gioia, dubbio e amore – un luogo/performance dove Rick Owens mette in scena tutto sé stesso senza censure, artista a trecentosessanta gradi.

Il primo impatto è mozzafiato, confusionario: un’enorme massa nera e brillante attraversa lo spazio espositivo, a ferro di cavallo, accompagnando il visitatore attraverso gli outfit creati dal designer, disposti in ordine cromatico (partendo dal bianco per tornare al bianco, virando da tonalità a tonalità), e strumenti, fotografie, accessori che Rick Owens ha scelto di esporre per raccontarsi. 

Stilista statunitense, classe 1962, lancia il suo marchio nel 1994 e nel settembre 2002 la sua prima collezione (sponsorizzata nientemeno che da Vogue America e Anna Wintour) calca le passerelle della settimana della moda newyorkese. Il suo stile richiama la scuola giapponese, in particolare Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawabuko; i suoi capi giocano sulle proporzioni e sulle forme anatomiche, creando esseri super/in/disumani (ad esempio le maniche diventano maschere, cappucci, si adattano ad altre parti del corpo, mentre bizzarri volumi deformano la silhouette umana eliminando i tradizionali confini tra abbigliamento maschile e femminile). È una dialettica tra organico ed inorganico, forse una riflessione su cosa sia definibile oggi “essere umano”, uno studio sull’interazione tra i corpi e sulle funzioni del nostro organismo.  

Sembra di trovarsi davanti ad un intricato enigma, e in effetti la personalità del designer non sembra essere da meno. Chiedo così più informazioni ad una guida del museo, per cercare di orientarmi in quel dedalo di messaggi e suggestioni contrastanti: vengo così a sapere che Rick Owens ha partecipato attivamente alla cura dell’esibizione, prestando attenzione a ogni minimo dettaglio. Scopro che ha disegnato le divise del personale, la mobilia e i divani in cammello da cui ammirare le proiezioni delle sue sfilate, e che ha letteralmente messo sé stesso in questa mostra: l’enorme massa nera che si snoda lungo il percorso è composta da calcestruzzo, gigli, sabbia (quella del lungomare presso Venezia dove desidera venire sepolto) e dai suoi capelli (che pare abbia messo da parte ogni volta che si pettinava). Ed è questa massa (da lui definita “a black glittering howl of ego”) che sembra emanare tutte le singole sfaccettature dell’artista, fil rouge di questa entusiasmante parata di creature sovrannaturali: simbolo di una certa androginia, esse indossano vestiti rigorosamente unisex, parte di un’estetica e di una definizione di bellezza che Rick Owens vuole comunicare anche attraverso la particolare colonna sonora delle sue sfilate.

Più che una mostra è in effetti una performance, colpisce emotivamente e lo fa anche con forza, giocando con una parte di noi (una diversa declinazione dell’essere “umani”) che sarebbe difficile comunicare con indumenti che non abbia disegnato lui – qualcosa di ancestrale, originario. Le sue collezioni mostrano un forte legame con diverse civiltà dell’antichità, e con ciò che di esse rimane, che siano architetture divorate dal tempo (come i templi maya vicino alla città dove nacque sua madre, a cui si rifà per realizzare l’arco d’ingresso) o ritmi, passi di danza (le note e le esibizioni che accompagnano le sue sfilate parlano di popolazioni legate alla natura, più “umane” in quanto più vicine all’essere umano originario).

Curioso, poi, anche il catalogo della mostra, un richiamo alla “scatola in una valigia” di Duchamp: Rick Owens ha scelto diversi oggetti simbolici, testi, fotografie, campioni di materiale che restituiscano ciò che la mostra rappresenta, ovvero il suo universo in toto, e non solo una raccolta di fotografie di indumenti da lui disegnati. 

Ne scrive anche Vogue Italia 

Presso la Triennale di Milano, fino al 25 Marzo.

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